C’è una Pompei diversa ad attenderci tra gli scavi del sito archeologico, immutata negli anni eppure ancora così inesplorata. La cenere del Vesuvio ha seppellito e conservato una città estremamente viva, pulsante di umanità serbandone intatta, quasi paradossalmente, l’immaterialità. Mi riferisco a tutti i sentimenti, agli amori, all’ironia, alla spiritualità dei pompeiani che abbiamo la fortuna di poter ancora conoscere ed apprezzare, malgrado la catastrofica eruzione del 79 d.C. e la riprovevole negligenza dell’uomo. Albeggia una luce nuova sulla storia della città di Pompei, un chiarore insolito che ci viene evocato e raccontato da una vera e propria consistenza patrimoniale fatta di pitture, graffiti ed iscrizioni che ci restituiscono la cifra della raffinatezza di un popolo così fortemente votato alla sensibilità poetica.
È impossibile rimanere indifferenti al cospetto di questo racconto scritto, inciso da una mano arrabbiata, da un’altra innamorata e da un’altra ancora fervente di amore che con conosce peccato. Pompei è viva, arde di quella fiamma accesa da Venere volitiva “della Natura unica guida”, brucia delle passioni contrastanti e degli ardori di quel popolo così lontano da noi, ma solo negli anni.
Scoprire gli aspetti più intimi e dunque sacri di Pompei, mi ha particolarmente legata alla sua storia perché essa pizzica le corde di ogni animo sensibile all’arte e alla vita che, dunque, non può non subirne la poetica grazia.
La Casa della Venere in conchiglia si affaccia su un giardino profumato di essenze mediterranee ed un piccolo sentiero incorniciato da cespugli di mirto conduce il visitatore al cospetto di un trittico di pannelli, una surreale finestra sul mare dal quale, in una conchiglia, Venere sorge maestosa e lasciva. Venere capricciosa e vanitosa, messaggera di bellezza, di fertilità. Venere amata e temuta perché capace di imbrigliare nei lacci dell’amore l’animo umano senza, tuttavia, concedergli scampo. Sui muri di Pompei sono numerose le iscrizioni dedicate alla dea ed un uomo disincantato e disilluso dall’amore spende parole dure per Venere e scrive:
“Vada l’amore in malora, alla dea Venere voglio le costole spezzare a colpi di bastone ed i fianchi storpiarle; se ella può trafiggere il tenero mio cuore, perché non dovrei spaccarle il capo col bastone?”.
Di immensa tenerezza è l’iscrizione di un pompeiano innamorato della sua donna tanto da compararla, in bellezza, alla dea:
“Chi non ha visto la Venere dipinta da Apelle guardi la mia ragazza: ella è fulgida al pari di quella”.
Io ho immaginato le mura della citta di Pompei come la home di un moderno social network, da sfogliare camminando anziché scorrendo le dita sullo schermo. Ho sognato questo uomo, innamorato e devoto alla bellezza della sua donna, pubblicare una foto della sua amata descrivendola poeticamente seducente come una Venere uscente dal mare. Mura come fogli, come luogo, non solo modernamente virtuale, per raccontare, per mettere in guardia sulle debolezze dell’animo umano, come scrive questa donna:
“Venere avvolge nella rete. E poiché lancia attacchi al mio amato, gli procurerà tentazioni lungo la via. Lui si auguri una buona navigazione, che è quanto per lui chiede anche la sua Arione”.
Arione piena di premura per l’uomo che ama ed attenta ad informare, anche noi sconosciuti, sulla volubilità del cuore umano che ubbidisce a Venere. Chi avrebbe mai saputo di Arione e di tutta la sua cura? Chi avrebbe mai saputo di Sabina? A lei l’amato dedica un distico che ha il sapore malinconico della presa di coscienza sulla labilità delle cose:
“Così tu possa esser sempre in fiore o Sabina, ti modelli l’avvenenza e conservati a lungo fanciulla.”
Chi avrebbe conosciuto il peso dell’amore di quel tale cedevolmente e al tempo stesso tenacemente, tanto da scriverlo su un muro, innamorato della sua Cestilia ? Per lei scrive:
“Salve, o Cestilia, regina di Pompei, anima dolce”.
Non mancano graffiti che documentano anche gli alterchi amorosi come narra un secco:
“Serena Isidoro non se lo fila proprio”
ma una rassicurante iscrizione lascia fare al tempo il suo mestiere, quello di dissolvere l’acredine:
“L’ira è ora recente, meglio conviene andar via. Quando il risentimento sarà svanito, credi, poi ritornerà anche l’amore.”
Di straordinaria poesia sono ammantate le parole dettate da quell’amore tradotto come dimensione terrena che non conosce trasgressione, scandalo, colpa, trucco. L’amore intimamente congiunto ai piaceri delle carne, mai peccaminoso e sempre gaudente. Ne sa qualcosa Romula abitatrice della casa di Fabio Rufo, a lei sono dedicate molteplici iscrizioni, come quelle che seguono:
“Romula lo succhia al suo uomo qui e ovunque”
“Romula di uomini, ma mille, diecimila!”
Consistenti, circa venti, sono le dediche rivolte a Novellia Primigenia, mima di Nocera, descritta come donna dolcissima ed amabilissima, bella e raffinata, che conquistò Pompei per le sue capacità recitative tanto quanto che per le doti amatorie. Ammaliò cuori, inebriò sensi e si guadagnò versi di eterna poesia:
“Salute a te Primigenia di Nocera. Mi basterebbe per non più di un’ora essere la gemma dell’anello (che ti offro) per dare a te che la inumidisci con la bocca (nell’imprimere il sigillo) i baci che sopra vi ho impressi.”
“Chi trascorrerà con te la notte in un sonno felice? Ah, potessi essere io! Certamente sarei molto più felice.”
Pompei ardeva delle braci degli amanti, di quell’esercito dell’amore che aveva un unico canto:
“Chi ama prosperi, muoia chi non sa amare; due volte tanto, poi, muoia chi impedisce d’amare”.
Nella Casa dei casti amanti, dimora di un facoltoso panettiere, così chiamata per il ritrovamento di un quadretto del triclinio che raffigura un bacio casto tra due amanti, campeggia un’iscrizione che ben lascia intendere la portata del sentimento amoroso, il serio ruolo di uomo che si impegna ad amare la sua donna:
“Vita mia, voluttà mia, diamo corso per un po’ a questo gioco. Sia questo letto un campo e sia io per te un destriero.”
Struggente è l’augurio che riguarda due schiavi, pronti ad intraprendere un percorso di vita comune che sperano possa essere eternamente illuminata dal più sincero sentimento d’amore:
“Methè di Atella, serva di Comina, ama Cresto. Che Venere pompeiana propizia possa blandire sempre i loro cuori e farli vivere in perpetua concordia”.
Non si sa nulla della durata di quest’amore, di quali sorti siano toccate a Methè e Cresto, ma la poesia dei muri di Pompei ci fa un dono che suona quasi come un’immagine di speranza, un bagliore che vuole illuminare le incomprensioni tra due amanti:
“Niente è possibile duri in eterno: il sole che già alto splendeva ecco s’immerge nell’abbraccio del mare e falce diventa la luna, ancora piena solo poco fa. Così la furia dei venti spesso si muta in brezza leggera.”
Particolarmente intenso e denso di tutta la passione viva e bruciante che invadeva Pompei è questa iscrizione, che preferisco alle centinaia di altrettanto bei versi che ho avuto il piacere di leggere. Le parole di una donna innamorata di un’altra donna che ha preferito, al suo, l’amore di un uomo. L’inno di una Pompei libera da tutti quei pregiudizi che invece, oggi, rendono plumbeo anche il più bello e spontaneo dei sentimenti:
“Oh, potessi io avvincermi al tuo collo in un abbraccio e riempire di baci le tenere tue labbra. Va per ora, fanciulla, e ai venti affida le tue gioie. Dà retta a me, mutevole è l’animo degli uomini. Smarrita mi sono io trovata spesso nel cuore della notte a vegliare, meditando tra me su queste cose. Molti che ad alte vette la fortuna ha innalzati, all’improvviso precipiti li ha resi ed or li tiene in stato di costrizione estrema. In modo eguale, come Venere congiunse repentina i corpi degli amanti, così la luce li divide e il loro amor separa.”
ELISABETTA MAURO